FM

Fondamenta Magazine

numero 0

Editoriale

Per i greci e i romani l’atto della Fondazione e del gettare le fondamenta era di un’importanza tale da riconoscergli l’attribuzione – quasi divina – di una personificazione, la Ktisis, che sin dai tempi di Esiodo e Callimaco deteneva un’accezione tanto concreta, legata alla costruzione delle città, quanto metaforica, riconducibile alla costruzione di un patrimonio umano durevole. È poi Cicerone a completare la sfera semantica del termine parlando nel De officiis di “fundamenta rei publicae” (ovvero “le fondamenta dello Stato”) e affibbiando al termine un decisivo sostrato politico e civile.

Soprattutto, la personificazione della Fondazione era donna. Cinta di un diadema, circondata da un trionfo di fiori e frutti, fiancheggiata da una cornucopia (così ce la consegnano alcuni splendidi mosaici d’area mediterranea e cirenaica), Ktisis protegge le radici delle case e delle cose, la volontà di porre fondamenta salde alla base di ogni impresa, il sogno di costruire sopra di esse un futuro benevolo; e possibilmente farlo durare e prosperare.

Invocando questi buoni auspici e queste buone stelle, Fondazione Fondamenta nasce in occasione degli 80 anni di Electa e, riprendendo il filo del dialogo tra le arti, si propone di sviluppare progetti in grado di connettere linguaggi artistici, temi d’attualità culturale e priorità relative al patrimonio paesaggistico.

Per questo numero zero del magazine di Fondamenta abbiamo perciò pensato di modulare le frequenze – ad esse allude anche l’FM del titolo / acronimo – sulle quali vorremmo sintonizzarci, a partire dall’universo sonoro che la parola Fondamenta ispira. Abbiamo così proposto a cinque voci autorevoli dal panorama culturale e artistico italiano, cinque domande/sollecitazioni per attraversare proprio le prime frequenze, rappresentate da accostamenti tematici, che vorremmo fossero chiave nel gettare le “nostre” fondamenta.

Manu-Fatti / Famigliari
Chiara
Alessi

Le nostre vite quotidiane, anche se spesso lo dimentichiamo, sono piene di oggetti che racchiudono l’essenza delle nostre storie e della nostra Storia collettiva, come ci ha ricordato Soetsu Yanagi in The Beauty of Everyday Things. Nel museo ideale dei manufatti che ci hanno cambiato la vita e che nel corso del Novecento sono divenuti tanto la nostra “famiglia” quanto la narrazione della nostra Repubblica, quali sono gli “oggetti fondamentali” da portare con noi nel nuovo millennio?

Il Novecento è il secolo delle cose. Non solo perché mai come nel secolo breve c’è stata una lunghissima e feconda genealogia di produzione e invenzione materiale, ma anche perché quelle cose sono state molto più che cose: sono state simboli, detonatori sociali, sono state icone culturali, sono state bersagli, sono state linguaggi; insomma sono state soggetti più che oggetti.
Ora, noi, dal nostro punto di vista inevitabilmente antropocentrico, tendiamo a pensare che una cosa, che le cose che ci circondano in generale, siano lo specchio coerente del tempo, del luogo, degli attori e dei mezzi con cui sono realizzate. Insomma, che le abbiamo scelte. Anzi, che siano il frutto di una specie di selezione per la quale saremmo circondati dai migliori progetti possibili, quelli sopravvissuti a un rigido esame di funzione estetica e oggi anche sostenibilità. Ma se per capire dove andiamo è necessario sapere da dove veniamo, allora bisogna arrendersi al fatto che le cose sfuggono a questa linearità nel passaggio del tempo, tant’è vero che abbiamo intorno cose che non rispecchiano in alcun modo questioni di forma, di funzione e di contesto ma che esistono accanto a quelle che lo fanno. Ci sono cose che sono qui e saranno qui perché le abbiamo ereditate da sistemi precedenti; ci sono cose che sono qui e saranno qui perché ci siamo abituati a pensare che non potrebbe andare diversamente da così; ci sono cose che hanno funzionato per uno scopo molto a lungo e poi hanno funzionato bene per tutt’altro scopo; e ovviamente ci sono anche cose che non sono qui e non ci saranno, senza nessuna buona ragione. E ci sono cose che sopravviveranno indipendentemente da noi: senza padroni, senza Dio, senza una regola che, almeno fino a ora, abbia saputo spiegare in modo convincente perché sono lì. Perciò, anche rispetto al futuro, io non so quali saranno le cose di cui non potremo fare a meno, ma so che mentre se togliamo l’uomo, o persino la donna, alle cose non accade niente, senza cose non c’è storia. Pensiamoci: l’uomo e la donna non hanno mai potuto raccontarsi senza cose. Tant’è vero che quando l’uomo vuole punire toglie le cose, o ne interrompe la possibilità di entrare in relazione. E quindi eccoci al punto per me: il Novecento è stato il secolo delle cose, dei cosa, poi dei come e a un certo punto, per fortuna, anche dei perché. Io credo, anzi spero proprio, che adesso si inauguri l’epoca dei per chi. Sapere che non esiste più un interlocutore unico, un uomo medio, un target, ma che i soggetti sono esplosi e si sono moltiplicati insieme ai bisogni che esprimono e ai desideri che avvertono. Sapere per chi esistono le cose, con chi dialogheranno, chi aiuteranno, chi faranno sentire a casa. E se non si può sapere, se non si riesce ad avere la risposta, o a essere la risposta, continuare a tenere la domanda: “per chi?”.

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Foresta / Foglie
Silvia
Bencivelli

«La Natura è un tempio dove incerte parole / mormorano pilastri che son vivi, / una foresta di simboli che l’uomo / attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari». Baudelaire tradotto da Raboni ci aiuta a entrare nelle segrete corrispondenze tra arti, natura e società che vorremmo fossero anche le nostre. Spesso però, per citare l’ultimo capolavoro di Aki Kaurismäki, ci sentiamo come foglie al vento in un mondo tanto complesso e dai ritmi forsennati, innaturali appunto. Le scienze possono allora più che mai aiutarci a restaurare un rapporto armonico con ciò che ci circonda. Di cosa abbiamo bisogno per dare nuova linfa alla foresta in cui viviamo oggi, per rendere forti le nostre foglie?

C’è stato un periodo, nella storia recente del nostro paese, in cui abbiamo trasformato fazzoletti di terra, campi, boschi, prati, in foreste di palazzoni. È successo con il boom economico, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, quando i nostri nonni si sono spostati dai paesini nelle città: hanno smesso di fare i contadini morti di fame e si sono trasformati in operai e impiegati con l’utilitaria e il bagno in casa. E hanno cominciato a sognare per i loro figli un futuro migliore: laurea e posto fisso. Noi siamo quei figli, o meglio i figli di quei figli. E abbiamo effettivamente un presente migliore di quello dei nostri nonni contadini morti di fame, tanto migliore che abbiamo persino il tempo di denigrarlo. Di lamentarci per le due ore al giorno che passiamo da soli, chiusi in macchina, per andare al lavoro dall’altra parte della città: quella città che, a suon di palazzoni, è diventata enorme. Non ci rendiamo nemmeno conto che il traffico siamo noi. Né che, comunque, l’aria che respiriamo è migliore di quella di trenta o quaranta anni fa, quando di macchine in giro ce n’erano di meno, ma inquinavano di più. Quando tutti fumavano, anche al cinema, in classe, in ospedale, dentro case con le finestre chiuse e i riscaldamenti accesi. Quando nel latte potevi trovarci il gesso e nel vino il metanolo, e il vaccino contro il morbillo si poteva soltanto sognare. Ma si può fare di meglio. Sappiamo come migliorare la qualità del nostro ambiente domestico e urbano, la nostra salute e il nostro tempo libero, e abbiamo strumenti e tecnologie per limitare il nostro impatto sull’ambiente. Sappiamo anche perché farlo: per convenienza, perché è anche il nostro ambiente. Ma soprattutto perché è giusto. Perché come i nostri nonni vennero in città pensando ai loro figli e nipoti, e quei nipoti eravamo noi, è giusto che anche noi pensiamo ai prossimi abitanti di questa Terra, che siano gatti, pesci, rododendri o bambini. Credo che sapersi di passaggio su questo pianeta, aggregati di atomi provvisori, a cui è capitato di formarsi e “vivere” sottoforma di esseri umani europei alle soglie del secondo millennio, possa aiutarci a capire quanto siamo fortunati, e qual è la direzione migliore ogni volta che dobbiamo (cioè: abbiamo la fortuna di poter) fare una scelta.

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Frammenti / Fondamentali
Gabriele
Pedullà

In un’epoca di sistematizzazione dei saperi sempre più ibrida, volatile e in qualche modo centrifuga, di “produzioni umane frammentarie e mal classificabili” scriveva Calvino, quali rimangono le fondamenta – i “fondamentali” – da cui non possiamo proprio prescindere?

Probabilmente nessun autore ha mai parlato quanto Niccolò Machiavelli della necessità di “fondare” e “fare fondamento” – due espressioni che ricorrono lungo tutto il Principe. La ragione di questa insistenza è semplice. Nel suo breve trattato Machiavelli descrive un potere recente, ancora instabile, minacciato da ogni dove, sostanzialmente precario: e un solido radicamento è ciò che, viceversa, dovrebbe garantirgli di resistere alle violente sollecitazioni esterne che da subito mettono a rischio la sua durata. Eppure, la questione si rivela al tempo stesso assai più generale. Il mondo degli uomini, per Machiavelli, è perennemente in moto; la metamorfosi è inarrestabile; e molto spesso, per sopravvivere, il politico deve imparare ad adattarsi agli eventi, un poco alla maniera degli oratori più abili secondo la teoria retorica degli antichi. Nell’arena pubblica, infatti, la stabilità si può ottenere solo dinamicamente, vale a dire cambiando postura in base a un contesto esterno in continua evoluzione. Tuttavia, proprio perché il presente è una forza potentissima, da incanalare più che da contrastare apertamente, agli occhi di Machiavelli è tanto più necessario provvedersi in anticipo di solide fondamenta: come le canne che resistono alla furia degli elementi non solo perché, a differenza delle querce, sono flessibili (e, quando serve, sanno piegarsi), ma perché c’è qualcosa – delle radici profonde – che impedisce siano strappate via dal vento. In ossequio alla metafora agricola che le dà il nome, la cultura ha svolto spesso questo compito essenziale: come una base solida che offrisse al nuovo le sue stesse condizioni di possibilità, e poi gli permettesse di attecchire meglio. L’avvento, e poi la tirannia, della società dei media – ieri di massa e oggi sociali – ha però sovvertito nel giro di pochi decenni la sua funzione. Fattasi a sua volta spettacolo e intrattenimento, la cultura stessa ha imboccato con decisione la strada della performance: versione contemporanea dell’oratoria, che non riconosce altro imperativo se non quello di mutare a seconda del tempo, del luogo e delle circostanze per compiacere un pubblico facile alla noia. Non se ne scappa: sancita universalmente l’onnipotenza del flusso, trionfa l’attimo fuggente; niente più dura perché niente, più, deve durare; guai dunque a chi non si dimostra in tutto e per tutto sincronizzato al suo momento. Al costruttore-coltivatore, che dissoda il suolo, canalizza i campi e prepara le basi in vista degli edifici che sorgeranno un giorno, si sostituisce così il nomade-razziatore, che, con le sue tende mobili, vive in un presente di istanti e non possiede un vero senso del futuro perché ha scelto di non serbare memoria del passato. Giriamo monotonamente in cerchio. La questione delle fondamenta torna allora essenziale per il nostro tempo non come difesa nostalgica del mondo di ieri, ma come contravveleno alla sua paralisi: per aiutarci, cioè, a pensare il mondo di domani anzitutto liberandoci dall’eterno ritorno di mode, forme, tendenze e pose sempre inconsuete e sempre cangianti perché – in definitiva – sempre uguali a quelle di cui sono chiamate a occupare così brevemente il posto.
Il fondamentum più indispensabile è dunque anche quello più minacciato dal “presentismo” dell’odierno sistema della comunicazione: quel senso storico del diverso che, solo, permette di immaginare una novità non effimera, vale a dire capace di farsi essa stessa, prima o poi, radice. Con una battaglia di avanguardia, non di retroguardia; nel nome della differenza, non della ripetizione. Fondare meglio, fondare ancora.

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Fantasia / Fiducia
Vanessa
Roghi

Inventare storie, ce l’hanno ricordato per sempre Gianni Rodari e Bruno Munari nelle rispettive grammatiche della fantasia in dialogo tra loro, significa innanzitutto riconoscere il ruolo educativo fondamentale della fantasia per liberarci da catene, omologazioni e imposizioni dall’alto. Come si può – attraverso la fantasia e l’educazione – allenare la mente a essere più elastica e pronta di fronte alle tante sfide che ci attendono?

Innanzitutto, non parlerei di sfide. Vorrei eliminare dalla lingua ogni riferimento a una dimensione performativa, competitiva, almeno in questo ambito che è quello della creatività unita all’educazione. Quando Gianni Rodari e Bruno Munari iniziano a riflettere su “l’inventare” e sulle sue implicazioni poetiche lo fanno pensando che questa attività non sia importante soltanto per cambiare l’arte o la letteratura ma per cambiare il mondo. Cambiare il mondo è una prospettiva politica che riguarda la collettività: per tutti e per ciascuno. Non è dunque un gesto egoista, di autoaffermazione, di narcisismo, egocentrico, inventare è un gesto collettivo, generoso, anche se lo fa una singola persona, perché mostra che le cose possono essere viste da un altro punto di vista e lo mostra a tutti. Dunque, non è una “sfida” fra il singolo e il mondo, ma un gesto di cura, di trasformazione. Se poi chi inventa condivide con gli altri, per quanto possibile, attraverso quale procedimento, quali procedimenti, quell’invenzione sia stata resa possibile allora entra in campo l’educazione.

Educare alla creatività non è semplice: non basta dire: inventa, né: scrivi un tema a piacere, non basta dire: disegna, né: disegna quello che vuoi. Certo: sempre meglio che obbligare a scrivere a disegnare seguendo tracce spesso del tutto avulse dalla sensibilità di chi impara, soprattutto se bambino o bambina. Ma per inventare cose nuove occorre avere ben presente la realtà che ci circonda e avere un forte desiderio di ripensarla o essere sollecitati a farlo.

Molto importante su questo tema la lezione di Lev Vygotskij che fin dagli anni Trenta ha scritto: «L’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza della ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più sarà ricca l’esperienza dell’individuo, tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. (…) Quanto più Il bambino avrà visto, udito e sperimentato, quanto più avrà conosciuto e assimilato, quanto maggiore sarà l’entità di elementi della realtà che avrà avuto a disposizione della sua esperienza, tanto più significativa e feconda — a parità di ogni altra condizione — riuscirà la sua attività immaginativa». È necessario, perciò, che «per nutrire la sua immaginazione e applicarla a compiti adeguati, per ampliare i suoi orizzonti, possa crescere in un ambiente carico di impulsi e di stimoli, in ogni direzione».

Educare alla creatività riguarda, così, ogni singola disciplina scolastica. Nel passato si parlava di creatività in riferimento quasi sempre alle cosiddette «attività espressive» e al gioco, quasi in contrapposizione con altre esperienze quali l’insegnamento della matematica o della scienza o della ricerca storica e geografica. Proprio per questo nei confronti della creatività si è sempre manifestata una sorta di affettuosa, generosa accettazione come momento compensativo di quello più grave e qualificato che portava l’individuo e il gruppo a ragionare, fare delle scelte, ad assumere un impegno. Sfuggiva e troppo spesso sfugge ancora oggi quello che Gianni Rodari diceva nel 1970 quando gli hanno conferito, unico tra gli italiani, il premio Andersen: «Occorre una grande fantasia, una forte immaginazione per essere un vero scienziato, per immaginare cose che non esistono ancora e scoprirle, per immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo e mettersi a lavorare per costruirlo. Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi, essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo, gli può dare delle immagini anche per criticare il mondo».

Quando Gianni Rodari inizia a scrivere per i bambini negli anni Cinquanta del Novecento, Bruno Munari è già un’artista noto e rispettato, sebbene, è lui stesso a raccontarlo, le sue “macchine inutili” siano collocate, da chi le compra, nelle stanze dei bambini. In salotto il marmo, la pittura, la pesantezza della materia del segno, nella stanza dei bambini la leggerezza della scultura aerea. Anche Rodari chiamerà le sue filastrocche giocattoli, ben sapendo di essere considerato, per il suo occuparsi di bambini, uno scrittore di serie B. Entrambi perseguono su questa strada senza considerarla affatto secondaria rispetto al loro lavoro degli adulti e ancora oggi dobbiamo a loro moltissimo: alla loro scelta di mettere a disposizione i loro attrezzi del mestiere, attraverso libri, laboratori, incontri pubblici. C’è un intrinseco valore democratico nel farlo. Prendendo ancora in prestito le parole da Rodari occorre dunque, oggi come ieri: «Riuscire ad abbandonarsi a un eccitante divertimento, riponendo il proprio inquietante interrogarsi sull’essenza della fiaba moderna e sull’immaginario infantile, pur restando fermamente e ironicamente convinti che la fantasia muta il mondo e che le fiabe sì scrivono per chi, cresciuto, vorrà coniugare democraticamente rivoluzione e libertà».

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Festa / Sin-Fonica
Giulia
Cavaliere

Dal Leopardi del Sabato del villaggio sino all’invito dei Beatles a “Festeggiare qualsiasi cosa tu voglia […] irradiando tutto ciò che sei”, ripensare il concetto di festa come una sinfonia, un insieme di anime e suoni da armonizzare insieme oltre la spettacolarità a ogni costo, potrebbe essere oggi più che mai sorprendente e affascinante. Immaginiamo la “playlist” del nostro futuro prossimo: di cosa abbiamo bisogno per costruire questa sinfonia?

Nei suoi Young People’s Concerts diretti tra il 1958 e il 1972 e poi tradotti in un libro, Leonard Bernstein, nel tentativo di educare bambini e ragazzi alle regole della musica, approfondisce il concetto di sinfonia. “Che cosa rende la musica sinfonica?”, cercando di rispondere a questa domanda il direttore d’orchestra e compositore sceglie il termine sviluppo, identificando in esso quella porzione di vita che un brano musicale attraversa, tra il suo inizio e la sua fine, cioè il luogo dove temi, idee sonore e melodie trasformano la loro forma primigenia, da immaginare come un albero spoglio in inverno, nel loro esito finale, la sinfonia, cioè l’albero da frutto dell’estate figlio della fioritura primaverile. Lo sviluppo in musica si gioca di continuo su più possibili livelli di complessità: la ripetizione, la variazione, la progressione, l’imitazione e persino la decomposizione che devono manifestarsi, vivificarsi nella partitura al momento più giusto perché, se ciò non accade, la musica perde il cuore pulsante della sua forza: l’espressione.
Il processo con cui si costruisce la sinfonia, allora, è subito chiaro, richiama quello che ci mette all’opera anche nella costruzione delle nostre identità mobili di bambini, adolescenti, adulti, in movimento anche noi tra ripetizione, imitazione, progressione, variazione e decomposizione in accordo con il tempo intimo di ciascuna delle nostre vite per costituirci ognuno come sinfonie o, allargando il campo uditivo, come frammento di una sinfonia corale.
Tutti questi elementi chiave dello sviluppo non hanno perso né perdono di senso costruttivo col trascorrere del tempo della storia: donne e uomini non smettono di lavorare sul pentagramma di continuo, nell’arco delle proprie esistenze si confrontano con le possibilità che il tempo offre loro come singoli e come parti di un discorso collettivo. Per questa ragione il suono del futuro è un suono aperto agli azzardi del suo sviluppo, così come l’umano del futuro tende all’altro abbattendo la frontiera e attraverso la conoscenza intima e accurata dei propri tempi privati. I generi crollano, lo sviluppo è resistente nella costruzione più ampia di un suono in divenire, di una combinazione insieme estroflessa e intima della sinfonia che siamo.

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