FM

Fondamenta Magazine

Editoriale
Giulio Pantalei

Ogni immagine crea il proprio spazio dentro di noi. È un processo tanto immediato, inevitabile quasi, quanto articolato. È un processo dialettico, perché – lo ha distillato in una sentenza folgorante Susan Sontag – “le immagini non sono mai neutre; ogni immagine impone un’interpretazione”. L’incessante operazione ermeneutica che il gomitolo della nostra memoria quotidianamente compie gioca la sua partita sempre sul margine, sulla soglia, sul limes: il dentro e il fuori, il dato reale e la sua rielaborazione interna, la superficie e le “acque profonde”, come era solito definirle David Lynch, una delle ultime figure riuscite attraverso il potere delle immagini a mettere in condivisione con un pubblico di massa buona parte delle esperienze estetiche delle avanguardie del secolo scorso e dei linguaggi contemporanei.

Questo gioco di confine è in verità uno dei punti cardinali della creazione artistica: “L’opera d’arte ha inizio con delle immagini al servizio della magia. La loro importanza sta nel fatto stesso di esistere, non di essere vedute”, scriveva Walter Benjamin nel suo classico L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e chissà cosa direbbe oggi nell’epoca della sua riproducibilità digitalizzata o addirittura generata dall’AI. Vorremmo provare a porre anche questo quesito nel secondo numero di FM, il magazine di Fondamenta, questa volta orbitante per l’appunto attorno al tema dello “spazio dell’immagine”, nome che omaggia una delle grandi esposizioni di arte contemporanea del Novecento italiano, nella quale furono radunate opere originali di Lucio Fontana, Pino Pascali, Mario Ceroli, Michelangelo Pistoletto e molti altri, accompagnate da voci critiche d’autore quali quelle di Gillo Dorfles, Lara-Vinca Masini, Palma Bucarelli, Germano Celant.

“Lo spazio dell’immagine” è inoltre il titolo che Fondamenta ha pensato per una nuova serie di palinsesti ed eventi nelle principali sedi museali italiane, che hanno preso il via in questi mesi scorsi di marzo e aprile 2025 in alcuni luoghi straordinari: il Parco archeologico del Colosseo, congiuntamente alla mostra Brancusi. Scolpire il volo, e la GNAMC – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, con un public program correlato all’esposizione Pino Pascali. Toti Scialoja. Confluenze organizzata presso il Teatro Kursaal Santalucia di Bari. Sempre in Puglia, seguitiamo la nostra Penelope approdata al MArTA di Taranto con un nuovo palinsesto di Esistere come donna tra maggio e giugno.

Ciò che è certo, infine, è che allo spazio dell’immagine si lega sempre una storia, una narrazione. Costruendo se stesse in noi le immagini ci costruiscono, influenzando il nostro vivere a un livello ben più profondo di quanto spesso in maniera conscia realizziamo. Lo sapeva bene il visionario scultore Constantin Brancusi, che secondo amici e colleghi artisti, da Man Ray a Tristan Tzara, da Amedeo Modigliani a Benjamin Fondane, aveva trovato attraverso le immagini archetipiche lo strumento della sua art life: “Per Brancusi il mondo non ha più segreti. Ha scoperto quei quattro o cinque principi che lo reggono, le quattro o cinque chiavi dell’alba metafisica ovvero la sfera, l’uovo, il cerchio, la tensione ascensionale”. Tornare allo spazio delle immagini fondamentali, come amava dire l’artista franco-romeno, consente così di “attingere al vero significato delle cose”.

Stabilità / Spostamento

“Non andate in cerca di formule oscure o dell’arcano, ciò che vi offro è gioia pura; osservate le mie sculture finché non la vedete”, ha detto Constantin Brancusi, donando una chiave decisiva per la costruzione della propria immagine e del proprio mito personale. In un senso più ampio, in che modo hanno contribuito le arti plastiche (e in particolare le sculture di Brancusi) a definire uno “spazio dell’immagine” nuovo nell’immaginario collettivo?

Rispetto a questa domanda, ne pongo un’altra: cosa c’è di più stabile di una scultura e cosa c’è di più dinamico nella sua solo apparente immobilità? Tra questi due aspetti paradossali credo che possiamo leggere l’opera di Brancusi. Tra vedere e non vedere, così come tra stabilità e spostamento, tra radicamento e volo, prende forma l’oscillazione che continuamente devia da un solo lato della questione, per interrogare proprio lo spazio intermedio: quello che per Brancusi è lo spazio dell’immagine, né materiale né immateriale, né finito né non finito.  “C’è un proposito in ogni cosa. Per conoscerlo bisogna superare sé stessi”, diceva Brancusi, ricordato da Sidney Geist nel suo libro dedicato all’artista e pubblicato nel 1967.

E possiamo ancora chiederci: o andare al di là della stessa cosa? Da giovane Brancusi disprezza il modello e lo distrugge dopo averlo usato: “A che serve il modello? Esso non porta che a sculture di cadaveri”. Realizza sculture che non pensa come oggetti conclusi: vuole che le sue sculture si spostino in quello che farà dopo, in un lungo processo che rende vivi proprio gli spazi intermedi. Forse il modo migliore per osservare un’opera di Brancusi è osservare l’opera dell’artista, ad esempio, nel suo atelier – anche nelle fotografie –, quando le opere sono una vicina all’altra o, comunque quando si ha la possibilità di vederle insieme. In questo stato di adiacenza, dove ogni opera racconta qualcosa dell’altra, non c’è più genealogia della forma, né la possibilità di capire cosa venga prima e cosa dopo. Brancusi ha moltiplicato i suoi soggetti ma non sono mai copie. Non c’è la “riproducibilità tecnica” nelle opere in Brancusi, a meno che non si intenda questo come variazione sia tra i media che tra le idee da cui nascono le sculture. Ne sposta invece l’essenza, che considera la vera realtà delle cose, in modo che essa muti in qualcos’altro, in un’altra forma. L’essenza non resta così invisibile: prende forma nella differenza, nel passaggio dall’una all’altra scultura.

Quel superare “sé stessi” tuttavia, messo in relazione con la riduzione formale e la deformazione dei soggetti da cui parte – teste, uccelli, stati fisici come il tormento o il dormire – , condotti alla perdita della fisionomia originaria, oltre a mettere in discussione proprio l’idea di “origine”, contrastano anche l’aspetto idealizzato delle forme: le riporta a terra, alla fisicità della materia che è il legno, il marmo, la pietra, il bronzo lucidato.  Ci si allontana dall’origine, si svela qualcosa del presente, anche se non tutto, si viaggia nell’ignoto: questo Brancusi non smette di ricordarcelo.   Si allontana dall’antropomorfismo ovvero da quella tipologia di “rappresentazione” che mortifica l’uomo e la realtà delle sue azioni, non potendo che offrire copie disumanizzate e svuotate da ogni vitalità.  Paradossalmente dunque, gli artisti come Brancusi e, diversamente, Duchamp, o come De Chirico e Modigliani, hanno cercato una differente relazione dell’opera con il mondo, del soggetto artista con la sua opera, disumanizzando la sua fisionomia ma non perdendone le tracce, da ritrovare altrove: nell’oggetto, in un essere di altra specie, in un altro tempo sia storico che immaginato.

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Sconfinamento / Storia
Ugo Fracassa

Nel tuo ultimo libro, Il testo visibile. Lo spazio dell’interpretazione tra parola e immagine, hai analizzato la peculiare relazione tra la letteratura e le arti visive nel Novecento, un fenomeno di osmosi che ben illustra l’affermazione di un nuovo “paradigma iconico” accanto a quello linguistico. Com’è stata raccontata l’immagine nell’ultimo secolo?

Ciò che è stato del secolo passato, particolarmente nella sua seconda metà, e del presente, in relazione al dialogo tra testo e immagine, attiene piuttosto a una svolta (o Turn) nella teoria e nella pratica di quell’osmosi. Da sempre l’orizzonte sinestesico, infatti, ha sollecitato la creazione artistica, a partire da una favoleggiata unità originaria delle forme, attraverso i generi più maturi e classici basati sulla sinergia dei mezzi espressivi – Aristotele affermava la superiorità della tragedia sull’epopea per la presenza, prima ancora che dello “spettacolo” (ὄψῐς: vista, sguardo), della musica – fino alla prassi creativa delle neo-avanguardie seguite a quelle storiche e primonovecentesche.

Media linguistici e visivi collaborano, del resto, almeno dallo sviluppo delle tecnologie pittografiche e alfabetiche della scrittura. La stessa eloquenza, nella sua articolazione classica, fondava sulla dimensione spaziale (i loci o topoi) e visiva (le cosiddette imagines agentes) i presupposti stessi della mnemotecnica, necessaria all’oratore per governare un vasto repertorio argomentativo. Perfino l’intraducibile immaginario onirico ha trovato modo di manifestarsi, proprio all’inizio del secolo scorso, nella talking cure psicanalitica, attraverso la verbalizzazione e interpretazione dei sogni. Tuttavia, al di là di una malintesa concezione dell’“ut pictura poesis” oraziano (che una rilettura del passo dell’Epistola ai Pisoni basterebbe a scongiurare), il rapporto tra dicibile e visibile, come ci ha insegnato Michel Foucault, è sempre un confronto agonale, anche e soprattutto nella tradizione letteraria dell’ecfrasi, che ha conosciuto in tempi recenti una formidabile reviviscenza. A partire almeno dalla celebre lettura di Lessing del gruppo scultoreo del Laocoonte (1766), tale rapporto è stato declinato piuttosto nei termini di un “paragone delle arti”, sempre foriero di un “primato” da assegnare, più spesso al medium verbale, giusta l’indicazione del filosofo dei Lumi. Ma l’orizzonte logocentrico che fondava quel primato ha finito per essere revocato in dubbio, proprio alla metà del secolo scorso, dalle Ricerche filosofiche che portarono Wittgenstein ad affermare, non senza inquietudine: “un’immagine ci teneva prigionieri”. Quell’immagine, infatti, è incapsulata nella dimensione retorica e figurata del linguaggio, al punto che la teoria letteraria del Novecento, dopo aver creduto di poter ricondurre sotto i protocolli linguistici della semiologia la specificità della cultura visuale, è giunta a un’impasse quando ha dovuto rassegnarsi, proprio a fronte dell’indecidibilità tra livello retorico e letterale del discorso, alla decostruzione.

Il secolo passato ha assistito alla progressiva liberazione delle immagini dalla tutela linguistica, dai molti “senza titolo” che frustravano il visitatore alle prese con le prime esposizioni dell’espressionismo astratto, agli esiti più conturbanti e verbovisivi della poesia concreta di autori, come Emilio Villa, a lungo misconosciuti, ma rivelatisi infine decisivi per una nuova concezione del rapporto tra parola e immagine (si pensi all’influenza del poeta di Affori nella svolta pittorica di Alberto Burri). «In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione»: così Lalla Romano avvertiva, nel 1975, il pubblico della sua Lettura di un’immagine, titolo imprescindibile per una storia del fototesto in Italia. Solo tre anni prima con Ways of Seeing, John Berger aveva realizzato per la BBC un programma televisivo di alfabetizzazione alle immagini, artistiche ma non solo, del pubblico inglese. Alla fine del Novecento, le immagini assediano gli scrittori e li muovono verso la concezione di opere iconocentriche, con o senza ausilio di illustrazioni – si pensi al ruolo dell’immagine (fotografica) nell’opera di Annie Ernaux e prima, restando in Francia, di Roland Barthes alla ricerca di una traccia visiva della madre scomparsa ne La chambre claire (1980), o di Hervé Guibert per il quale quella materna si rivelerà inesistente, una vera e propria Immagine fantasma (1981). In un simile panorama pare lecito chiedersi, col Mitchell teorico del Visual TurnWhat Do Pictures Want? (2005).

Se da una parte la fenomenologia dell’ecfrasi si complica, nella descrizione di opere d’arte vere o immaginate, secondo modalità discorsive spesso inconsuete e perfino “enigmistiche” – grazie a uno stilema che da Manzoni è giunto a Gadda passando per Proust –, dall’altra l’immagine è riconosciuta ormai in grado non soltanto di mostrare, ma anche di riflettere su se stessa, senza necessità di grucce verbali, in quanto metapicture (“una qualsiasi picture può diventare metapicture, ogniqualvolta […] è impiegata per riflettere sulla natura delle picture” – T.J. Mitchell). Il “principio di insubordinazione” che presiede alle nuove modalità della liaison tra parola e immagine sposta infine il livello dello scambio millenario tra i due media espressivi dal piano retorico a quello pragmatico, poiché l’immagine vuole, dice e fa almeno quanto la parola, generatrice di immagini mentali, mostra e rappresenta.

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Schermo / Sociale
Beatrice Seligardi

A partire dalla riflessione di Susan Sontag, che in tal senso ha precorso i tempi in maniera profetica e incredibilmente acuta, nell’impero delle immagini in cui siamo costantemente immersi (soprattutto sugli schermi dei nostri smartphones) in che modo è possibile decodificare le immagini e in qualche modo riconoscere quelle che vengono “manipolate”?

Se la fotografia è, in termini semiotici, un indice, ovvero un segno che ha un rapporto di contiguità diretta con il referente (al pari di una traccia o di un’impronta), è pur vero che l’oggettività di cui sembra farsi portatrice è del tutto apparente, poiché ogni fotografia è sempre il risultato di un posizionamento – in senso letterale e figurato – di chi sta dietro l’obiettivo. Quella cui si riferisce Sontag è una fotografia intesa in senso primariamente analogico, come appunto “scrittura di luce”, vera e propria citazione discontinua della realtà; dunque un paradigma epistemologico e scopico piuttosto diverso da quello nel quale ci troviamo immersi e immerse oggi, con la possibilità di manipolare l’immagine in maniera talmente rapida e sempre più difficilmente decriptabile, tanto che ormai si parla di “post-fotografia”, come recita il sottotitolo di un famoso saggio di Joan Fontcuberta.

Non che Sontag, soprattutto all’altezza di Davanti al dolore degli altri, non fosse consapevole delle possibilità di manipolare le fotografie, che di fatto è sempre esistita sin dalla nascita del mezzo. Come lei stessa ricorda, “è sempre stato possibile che una fotografia distorcesse la realtà”. Forse il modo migliore per attraversare il pensiero sull’era fotografica, di cui Sontag è stata interprete eccezionale, è quello di procedere seguendo l’esempio che lei stessa fornisce nell’ultimo saggio di Sulla fotografia. Si tratta di una Breve antologia di citazioni, omaggio esplicito a Walter Benjamin, in cui l’autrice raccoglie una serie di brani dalle provenienze più disparate (anche se prevalgono le opinioni di artisti/e e scrittori/scrittrici): da Baudelaire a Julia Margaret Cameron, da Wittgenstein agli slogan pubblicitari della Polaroid, passando ovviamente per Benjamin, Sontag crea un piccolo archivio, un album non di immagini, bensì di parole frammentarie, citate, aforistiche – in piena consonanza al suo stesso stile di scrittura – per provare a orientarsi criticamente su cosa significhi guardare una fotografia.

Le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che vale la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione.

[…] L’atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto.

[…] La fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. Quasi tutti i suoi soggetti, per il solo fatto di essere fotografati, sono tinti di pathos.

[…] Il fascino che le fotografie esercitano, oltre che un memento della morte, è anche un invito al sentimentalismo. Le fotografie trasformano il passato in un oggetto da guardare con tenerezza, sopprimendo le distinzioni morali e disarmando i giudizi storici con il pathos generico del passato.

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Spazio / Sogno
Michele Dantini

Nei sogni, come noto, riassembliamo e ricombiniamo immagini. Non immagini casuali, ma immagini che hanno in qualche modo ritagliato uno spazio presso di noi. Quando prendiamo consapevolezza di questo procedimento e portiamo la fantasticheria nel mondo, principalmente grazie alle arti, lo spazio dell’immagine diventa un fatto collettivo. I sogni degli artisti, in particolare, si mischiano, si scambiano, si citano a vicenda. Quali sono “le insidie della citazione” tra artisti, come scrive nell’omonimo saggio contenuto nel catalogo Scolpire il volo?

Vorrei rispondere introducendo uno schema tassonomico, una cartografia della citazione. Esistono così tante citazioni e di così vario tipo. Immagino una pubblicazione più vasta su questo tema. Gli artisti usano citare per motivi diversi. Esiste ad esempio la citazione-omaggio, che riconosce la superiore abilità di un predecessore o mentore e ne replica i modi. È una citazione semplice attraverso cui, per così dire, si va a scuola. Per lo più si risolve nella “presa in prestito” di dettagli.

Esiste poi la citazione-accertamento: questa porta con sé un qualche riconoscimento della tradizione, ma è più distaccata, quasi “scientifica” nella postura. Si assume una determinata tecnica o stile del passato come ipotesi sperimentale, che occorre poi dimostrare (o confutare). Vero? Falso? Alcuni Achromes di Manzoni, per dire, o gli Oggetti in meno di Pistoletto sono “accertamenti”. Un determinato modo o maniera di fare arte, più o meno antica, regge alla verifica del tempo presente? Questa è appunto la citazione-accertamento: la tradizione entra qui quasi come readymade. Questa è una citazione con cui, in apparenza, l’artista non rischia niente: le «insidie della citazione» sembrerebbero qui ridursi a zero, perché ciò che viene citato è dato come “oggettivo” e inerte, riportato alla dimensione del luogo comune. Non esercita alcuna fascinazione. Tuttavia le cose non sono mai così semplici. Anche le sculture-centina di Pino Pascali, gli Animali, sono “accertamenti”: condotti su Brancusi, il mito, l’immagine magica e infine un determinato “purismo” modernista da cui Pascali è conquistato per la sua assolutezza. Ma la distanza presupposta dall’”accertamento” va perduta, e Pascali si trova alla mercé di «forme» di cui riteneva di poter disporre a proprio piacimento.

Più degli Achromes o degli Oggetti in meno, le “finte sculture” di Pascali, candide come miraggi, sono sogni ad occhi aperti, sirene, fascinazioni a pieno titolo, che esistono in modo autonomo e malioso, attraverso e oltre Brancusi. Da una parte abbiamo così il proposito dell’”accertamento” o “verifica”, per cui la “finta scultura” è nient’altro che una “macchina celibe”, dispositivo volto a suscitare proiezioni fantastiche da parte del pubblico ma relativamente privo di significato per l’artista. Dall’altra abbiamo invece il sogno, ed è tutt’altra cosa: Pascali per primo finisce per esserne soggiogato. Propostosi come “tecnico” del Simbolico, responsabile di sostituzioni e collaudi, l’artista si trasforma in un tramite, “veicolo” di non sappiamo bene cosa. Trucchi, sortilegi, fantasticherie, prodigi, ossessioni. Certo non ha più il controllo su immagini o «forme» che lui stesso ha “architettato”. Pascali allude alla circostanza creando quadri|sculture sul tema della gravidanza. Questa o quella immagine-Madre, suggerisce, si installa nella mente dell’artista sinché non viene alla luce. Nel farlo, lacera l’involucro raziocinante della “verifica”.

Negli anni Sessanta o Settanta si parla molto di “grado zero” dell’arte. Si intende la tabula rasa. Malgrado enunciazioni teoriche o boutade, è tuttavia facile verificare che l’arte italiana anche del secondo Novecento mostra una singolare resistenza a questo “azzeramento”. È sempre ricca di deposito storico-mitico, “immagine” e racconto. A livello internazionale oggi si è più in grado di apprezzare la ricchezza di echi e risonanze (iconografiche, tecniche, stilistiche) che giungono all’oggi, in Italia, da una tradizione estremamente vasta e composita. Già Edoardo Persico nel 1934, commentando Fontana, segnalava il «gusto delle influenze» di cui l’artista dava prova. Fontana non era certo il solo, al tempo, a manifestare questo «gusto» della riattivazione o della riscoperta. Pensiamo ai post-metafisici, a Cagnaccio di San Pietro, a Garbari, o a Scipione, Cagli, innumerevoli altri a cavallo tra Venti e Trenta. La citazione in Fontana acquista una particolare complessità in epoca postbellica: tutte le sue opere, anche quelle che noi consideriamo “astratte” o aniconiche, traggono nutrimento da ciò che chiamiamo tradizione – sono o accolgono citazioni, istituiscono rapporti. E questo rapporto di Fontana con l’arte rinascimentale e barocca, ad esempio, non è alcunché di residuale o folklorico, come è potuto sembrare a certa critica dottrinaria di irradiazione nordamericana. Al contrario: dischiude il cuore stesso dell’attività dell’artista, il luogo più segreto della sua officina, dove, con ostinato ingegno, in circostanze a tratti drammatiche, ci si batte per assicurare continuità a un’eredità millenaria.

La citazione è «insidiosa» perché modifica sempre di nuovo i termini della relazione. L’artista che cita calca per così dire la scena come attore della citazione, suo dominus e protagonista. Tuttavia, al termine del processo, è spesso la citazione a emergere come vera protagonista, a agire e non a essere agita, a violare il limite procedurale entro cui la si desiderava tenere. Ecco che la citazione diviene un varco attraverso cui determinate immagini-Madre, determinate Pathos-Formeln (cito qui Warburg) si impadroniscono della scena, muovendosi irresistibilmente dalla “periferia” al Centro del processo creativo, di cui divengono il nucleo. Potremmo dire che Fontana (ma non meno Burri) espone noi tutti alle «insidie della citazione»: riportando segretamente in vita qualcosa che sembrava morto. In particolare, nei Tagli: l’immagine sacra rinascimentale e barocca. A proposito di Fontana potremmo parlare di un terzo tipo di citazione, la citazione che a mio avviso ha rango più elevato ed è più difficile da riconoscere o decifrare: la citazione-genealogia (ma si potrebbe dire anche profezia). Questo terzo tipo di citazione investe la totalità dell’immagine, non si lascia afferrare su piani tecnico-stilistici né ridurre all’imitazione di dettagli. Un determinato lembo della Tradizione, inteso come Origine e “destino” – si tratti qui di mosaico bizantino, stiacciato primo-rinascimentale, apoteosi barocca – giunto a noi in sonno, preservatosi come per caso nella polvere dei musei, irrompe sulla scena contemporanea non per motivi nostalgici o revivalistici, al contrario, giustificato da sperimentazioni e impasse contemporanee; e, simile in questo a ciò che i teologi chiamano Grazia, dimostra d’un tratto la sua gloriosa attualità senza tempo. L’Origine non è perduta, l’Immemoriale è restituito al suo rapporto con la contingenza. Il tema mistico-estatico è diffuso in ambito spazialista, poverista e concettuale: oggi però, sviati da decenni di riduzionismo sociologico, stentiamo a riconoscerlo.

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